L’ho guardata per due giorni e per due giorni ho rimuginato. L’ho guardata e ho pensato che sarebbe stato come sempre. Parole tantissime, e molto politicamente corrette. La solita ipocrita compassione. E poi il silenzio e l’indifferenza.
L’ho proprio pensato e un po’ mi sono sentita in colpa.
L’ultimo, terribile atto di guerra che si è consumato il 4 aprile in Siria, nella provincia di Idlib, è un bombardamento chimico di cui organizzazioni internazionali e singoli governi, tra cui Unione Europea e Stati Uniti, accusano il regime del presidente siriano Bashar al Assad.
Quando il New York Times pubblicò in prima pagina la foto che oggi ha vinto il World Press Photo of the Year 2017, pubblicò anche un’intervista a Phil Corbett, il responsabile per gli standard etici del giornale, per spiegare ai lettori quella decisione. La foto andava fatta vedere perché “più potente della storia stessa”.
Guardo il filmato che mostra il giornalista siriano Milad Fadel raccontare in diretta tv per Al Jazeera quello che sta accadendo al suo popolo. «Qui ad Aleppo i bambini muoiono di fame» dice Milad.
In questo mondo iperconnesso siamo spettatori di tutto quello che accade in qualunque parte del pianeta. Così succede di dover chiudere gli occhi davanti ai video postati dall’Is che ci fanno testimoni di scene atroci come le decapitazioni, i prigionieri chiusi in gabbia e dati alle fiamme, gli uomini costretti a scavarsi la fossa, i corpi delle donne e dei bambini ammazzati, i ragazzini che giustiziano “il nemico” , quelli costretti a giocare sotto terra per ripararsi dai bombardamenti.