Silvia Romano: coraggiosa o sconsiderata?

Coraggiosi e altruisti, forti dei loro ideali e di un impegno che li porta a vivere vite disagiate in contesti poverissimi. O sconsiderati che corrono rischi enormi senza esserne consapevoli, pericolosi per sé e per gli altri. A dieci giorni dalla liberazione di Silvia Romano (la volontaria milanese rapita in Kenya e rilasciata dopo un anno e mezzo in Somalia), e mentre la Procura di Roma indaga sul sequestro e sui protocolli di sicurezza adottati dalla Onlus Africa Milele per la quale Silvia lavorava, si continua a discutere su quei giovani che se ne vanno in Paesi lontani ad aiutare chi non ha nulla.

Giorgia Micene, torinese, ha 48 anni ed è psicologa e psicoterapeuta. Anche lei, poco più di dieci anni fa, ha scelto di partire. Ha lavorato con Medici senza Frontiere nell’Abruzzo del terremoto, nella Malta dei migranti, nel Pakistan devastato da un’alluvione, nella Liberia confinante con la Costa d’Avorio in un violento dopo elezioni. Poi un giorno ha deciso di tornare, e ora vive a Levice, un piccolo borgo delle Langhe.

Giorgia Micene

Giorgia, i volontari sono pazzi incoscienti o eroi che si sacrificano per il prossimo?

«Sono niente di tutto ciò. Nel bene e nel male. Una premessa. Ho lavorato con Medici senza Frontiere, un’organizzazione molto grande, con regole di sicurezza rigorose. Per partire con Msf devi avere almeno due anni di esperienza professionale. Quindi di operatori umanitari giovanissimi, inteso come poco più che ventenni, io non ne ho mai incontrati. Pazzo o eroe di solito ti considerano gli altri quando parti e anche quando torni. L’ho provato sulla mia pelle. C’è chi idealizza la tua scelta: sei un angelo che si sacrifica, io non avrei mai il tuo coraggio… E c’è chi ti critica: sei una matta, cosa vai a fare in certi posti, c’è gente che ha bisogno anche qui… Chi ha ragione? Nessuno. Le persone che ho incrociato mi sono sembrate non meno equilibrate di quelle che uno incontra a casa propria. Animate soprattutto dalla voglia di comprendere “cosa c’è fuori”, mettendo a disposizione la propria esperienza professionale. Nel mio caso volevo esplorare un mondo che non è quello del turista. Lavorare in un’organizzazione umanitaria mi ha permesso di arrivare dove non sarei arrivata viaggiando».

Idealisti e incoscienti, hanno solo voglia di vivere un’avventura, accusano i detrattori.

«Se fosse solo voglia di avventura, ci sarebbero molti altri modi per soddisfarla. Meno impegnativi e meno faticosi. Io non posso escludere che chi è molto giovane faccia certe scelte anche con leggerezza. Ma è un errore colpevolizzare una motivazione che risponde a valori con cui tutti siamo cresciuti. Prima ti dicono: “Devi essere generoso verso gli altri, devi ricordare che nel mondo c’è chi sta peggio di te”. Poi, quando decidi di andare davvero a dare una mano a quelli che stanno peggio di te, allora diventi uno che vuol fare il fenomeno, vuole cambiare il mondo. Ovvio, e lo ripeto, questo non giustifica l’imprudenza. Mi ha stupito leggere che tipo di Onlus fosse quella con cui è partita Silvia. Ma ci sono organizzazioni – anche più piccole di Msf, però molto radicate nei territori – che danno una certa sicurezza».

Perché tu un giorno hai detto basta?

«Sono passati quasi dieci anni dal mio rientro eppure, dentro di me, non mi dico “mai più”, la porta per una nuova missione è sempre aperta. Il fatto è che a un certo punto non riesci a stare dietro a un’esperienza così totalizzante, se questa non diventa la tua vita. Dopo due anni io ho capito che dovevo scegliere, andare o restare. Ho cercato una via di mezzo, ma non l’ho trovata. Mi sono detta: mi fermo un po’ per capire cosa voglio davvero. Poi sono ripresi il mio lavoro, la mia vita personale, e ho inteso che davvero non si possono fare entrambe le cose. A Medici senza Frontiere ho lasciato un pezzo di cuore».

Quando si affrontano missioni difficili in contesti complicati come si torna a casa?

«C’è un certo disadattamento. Si chiama “shock controculturale”. Quando parti ti preparano all’impatto con una cultura diversa e ti adatti abbastanza facilmente. Diverso è quando torni. Le persone sono cambiate, il tuo ambiente ti diventa estraneo. Dal punto di vista psicologico c’è la necessità di fare sintesi di due esperienze così diverse. E non è semplice. A me è successo di provare una forte avversione nei confronti dei supermercati, in particolare per gli scaffali pieni di prodotti per i capelli. Mi chiedevo che senso avesse quella varietà, quando ero abituata a quell’unico botticino di detergente che mi serviva per i capelli e per tutto il resto. Non credo che dipendesse solo dal malessere di aver visto tante persone vivere con niente. Credo fosse anche l’aver aperto gli occhi su tutto ciò di cui non abbiamo bisogno. Un po’ come è successo ora con il lockdown, quando ci siamo accorti che di molte cose potevamo fare a meno».

Anche della grande città si può fare a meno? Sei tornata e hai lasciato Torino per un borgo di 250 abitanti.

«A Torino mi trovavo bene e mi trovo bene anche adesso, ci vado spesso, vedo gli amici. Ma partire mi ha fatto dare uno strappo al cordone ombelicale, e quando sono tornata è stato facile immaginarmi altrove. Nei due anni in cui ero stata via tante cose erano cambiate; ma avevano resistito i legami forti, quelli a cui tenevo davvero. E se erano sopravvissuti a certe distanze, potevano sopravvivere anche ai 100 chilometri che separano Torino da Levice. Così ho tirato fuori dal cassetto un sogno che avevo da tempo. Trasferirmi nella cascina dei miei nonni».

Contro Silvia Romano si è scatenato di tutto. Quanto conta il fatto che sia una ragazza?

«Essere donna fa la differenza, ed è stato questo uno degli elementi del mio shock di ritorno. Mi sono accorta che pochissimi avevano davvero capito la mia scelta. E questo proprio perché ero una donna. L’ho avvertito soprattutto in ambito lavorativo. Sono tornata con un’esperienza importante, con un curriculum molto forte. Ma nei colloqui chi mi stava di fronte non riusciva a mettere insieme l’idea di una professionista preparata e affidabile con quella di una persona che – a un certo punto – aveva deciso di prendere e andare. Era evidente il pensiero: se tu donna prendi, parti e te ne vai, c’è qualcosa in te che non va. Mentre i colleghi maschi con la mia stessa esperienza non subiscono pregiudizi del genere e sono molto più valorizzati».

Torniamo al caso di Silvia Romano.

«Ci sono stati imprenditori rapiti e liberati grazie al riscatto pagato dallo Stato che non hanno subìto alcuna critica. Ma con loro la gente si identificava. Erano i buoni padri di famiglia che rischiavano la vita per lavorare. Invece la ragazza giovane e carina che si occupa dei poveri risveglia la convinzione che – se sei donna – in certe situazioni non ti ci devi proprio mettere. Vale in tanti altri casi, a partire dalla violenza. Quando una donna la subisce è lei a dover dimostrare che non se l’è cercata».

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