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Di Gioele Dix e la passione (e i diritti) di chi lavora

L’altra sera, al Teatro Parenti di Milano, Gioele Dix ha letto “Bartleby lo scrivano” di Herman Melville. I GioveDix sono appuntamenti che mi piacciono tanto e Gioele Dix è sempre molto bravo a raccontare di scrittori e a leggere le loro storie.

La settimana precedente era stata la volta di Edgard Allan Poe ed ero uscita dal teatro quasi stordita dalla tensione di un paio di suoi racconti.

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Gioele Dix e il suo GioveDix su Bartleby lo scrivano di Melville.

Ai GioveDix si ritrova l’entusiasmo per libri letti magari molti anni prima. Io, l’altra sera, “Bartleby lo scrivano” edizione Feltrinelli del 1994, carta molto ingiallita dai 23 anni passati, l’ho ripescato sotto una pila di volumi all’ultimo piano della mia altissima libreria. E sono stata felice di rileggerlo.

Bartleby Melville

“Bartleby lo scrivano” è stato un GioveDix ancora più bello, più intenso del solito. E Gioele Dix, alla fine, lo ha dedicato a un suo professore del liceo Parini, che si chiamava Mario Spegne, viveva in una casa senza mobili ma piena di libri e fumava 100 sigarette al giorno.

Quel professore amava tantissimo il suo lavoro e la letteratura. E se è riuscito a trasmettere quel suo amore a tutti i suoi studenti come ci è riuscito con Gioele Dix, doveva essere proprio un grande.

Oltre che un privilegiato, perché ha potuto fare con passione il lavoro che voleva.

Poter fare il lavoro che si ama con passione. Non è così scontato. Anzi.

***

Venerdì sera l’autobus 73 che da Linate mi riportava a casa era stranamente poco affollato. Così sono riuscita a sedermi e un po’ mi sono distratta a osservare l’eterno cantiere della metro 4 sul viale Forlanini che dall’aeroporto porta in centro.

Ero persa nei miei pensieri quando ho sentito una specie di singhiozzo alle mie spalle. Mi sono girata e ho lanciato un’occhiata: era una ragazza che stava parlando al telefono.

Una lacrimona le rotolava sul naso. Ho pensato a un fidanzato fedifrago.

Invece no.

La ragazza stava parlando con il padre. Gli raccontava del suo stage e del fatto che, dopo mesi di lavoro serio e apprezzato, poco per volta le stessero togliendo tutte le mansioni. Non le facessero più fare nulla.

«Sono demoralizzata “papigno”» diceva la ragazza al telefono e a me è venuto da sorridere a quel diminutivo. «Se mi tolgono il lavoro che amo non mi rimane niente».

Io ho smesso di sorridere mentre lei continuava: «No, non posso venire a casa qualche giorno, io non ho diritto neppure a un giorno di ferie» e «Sì papà, ma ci vediamo presto, perché finisco a marzo e sicuramente non mi terranno».

Piangeva al telefono, quella ragazza seduta sulla 73.

***

Ieri ho letto il post che Alessandro Gilioli, giornalista de L’Espresso, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook.

Racconta del suo incontro con uno dei due amministratori delegati di Foodora, che è quell’azienda che consegna pasti a domicilio pagando i rider (tradotto, fattorini in bicicletta) pochissimo e a cottimo, e che non solo non riconosce loro malattia o ferie ma li licenzia, anzi li esclude dall’algoritmo delle chiamate (si dice così), se protestano.

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I rider di Foodora protestano contro le condizioni di lavoro

Scrive Gilioli: «L’amministratore delegato considera del tutto normale che una persona prenda tre euro e mezzo a consegna, senza nessun diritto, a chiamata, anche sotto la pioggia, e che la bici debba procurarsela lui/lei perché la concorrenza fa uguale, ha detto, o anche peggio; e perché “nessuno li costringe”».

Leggetelo il pezzo di Gilioli, è un pezzo che dice tantissimo sul lavoro e i diritti (compresa la passione) che si stanno smarrendo o non esistono più.

Ma dice anche altro. «Alla fine l’amministratore delegato mi ha fatto quasi compassione umana, lo dico davvero. Perché ha 29 anni, è uscito dalla Bocconi e nella vita non ha mai sentito parlare d’altro che di profitti e utili, non ha altri valori che quelli, e sgranava gli occhi quando gli chiedevo che cause stesse mettendo nel mondo, e che mondo vuole lasciare ai suoi figli».

Che forse, in questo caso, è solo una domanda retorica.

 

 

Un commento su “Di Gioele Dix e la passione (e i diritti) di chi lavora”

  1. Cara Monica,
    anche tu devi aver incontrato qualche insegnante appassionato lungo il tuo percorso di studi, o forse la tenevi già dentro di te, questa voglia di guardare ascoltare e raccontare quelli che non se li fila nessuno.
    E le cose che teniamo dentro, prima o poi vengono fuori.

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