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Antonella Mariotti: «La mia vita con il Covid»

Questa storia inizia venerdì 13 marzo alle 17,51. È proprio a quell’ora, a quel minuto 51, che Antonella Mariotti, 59 anni, giornalista del quotidiano La Stampa, scopre di avere la febbre alta. Antonella lavora nella redazione di Alessandria. Quattro giorni prima era andata negli uffici amministrativi dell’ospedale di Tortona per un’intervista: «Alla fine la persona con cui avevo parlato mi aveva teso la mano e io non avevo osato non stringergliela». Chissà se è da quella stretta di mano che ha preso avvio tutto. Dove tutto è il contagio da Coronavirus da cui Antonella sta poco per volta uscendo in questi giorni.

Come ti senti ora?

«Meglio, anche se ho ancora un po’ di affanno quando parlo. Ma è stata durissima».

Riesci a raccontare cos’è stato?

«Immagina di camminare tranquilla su un marciapiede. A un certo punto ti senti chiamare. Ti giri e ti trovi di fronte un Tir. È andata così. E il dolore fisico è inimmaginabile. Avevo male ovunque, le spalle, i muscoli… anche se ho sempre respirato bene ed era quella la preoccupazione più grande del medico. Poi c’è l’altro dolore, quello emotivo, che ti prende soprattutto di notte».

Com’è cominciato?

«Dalla febbre di quel venerdì 13. Subito ho pensato all’ospedale di Tortona e al rischio del Coronavirus. Ma ho ancora le tonsille e, in passato, ho avuto un problema di un batterio che mi aveva provocato una temperatura molto alta. Il giorno prima, poi, ero stata un paio d’ore davanti al carcere di San Michele per le proteste dei detenuti. Faceva freddo e non ero coperta a sufficienza. Sarà influenza mi sono detta. E un po’ mi sono tranquillizzata».

Invece?

«Passa sabato, passa domenica, sembra che con la tachipirina la febbre scenda un pochino. Ma lunedì è di nuovo altissima, e così resta di giorno e di notte. Il mio medico, che sento per telefono e mi tiene sotto controllo, decide di avvisare la Asl per sospetto Covid. Arriviamo a venerdì – otto giorni dopo la prima febbre – e il medico mi dice che, se non cambia nulla, mi dovrà far ricoverare. Io mi allarmo, negli ospedali erano i giorni peggiori, essere ricoverati avrebbe aumentato il rischio di prendersi il virus, ammesso che già non lo avessi. Così lui mi propone una terapia sperimentale».

Cos’è?

«È quella che sta portando avanti il professor Garavelli, infettivologo di Novara. È a base di Plaquenil, un farmaco antimalarico che somministrano ai sospetti malati di Covid. Sospetti, perché non hanno fatto il tampone. “Tu saresti la prima, te la senti?” mi chiede il dottore. Io rispondo che sono d’accordo con qualunque cosa, pur di stare meglio. Comincio a prendere il Plaquenil la sera del 20, tra l’altro mi avevano appena comunicato che avrei fatto il tampone, e già la domenica mi sento un’altra, la febbre è scesa a 38.2. Riprendo persino a bere il caffè, di cui non sopportavo più neppure l’odore».

Quando ti hanno dato il risultato del tampone?

«Ho fatto il tampone a casa e mi hanno detto che avrei avuto il risultato per raccomandata. Ma niente. Ho chiamato e richiamato io al telefono. Fino a quando mi hanno risposto che ero positiva. Ma ancora oggi non ho un certificato che lo attesti».

Tu hai vissuto la tua malattia da sola?

«Il mio compagno è svizzero ed è rimasto bloccato in quel Paese dopo la chiusura delle frontiere. La mia mamma vive come me ad Alessandria, ma ha 82 anni. Non le ho detto nulla fino a quando non sono stata meglio. Sì ero sola, ma ho potuto contare su quelle che ora sono diventate le mie migliori amiche: Giorgia Robotti, una vicina di casa, e Rosa Monteleone. Mi hanno aiutato tantissimo. Nei giorni più terribili Giorgia cucinava e mi lasciava i pasti in cortile, poi si allontanava e io andavo a prenderli. Ci vedevamo da lontano: capivo in quali condizioni mi trovassi da come mi guardava. Rosa mi ha dato una mano con Asia, il mio cane. La portava fuori, a correre. Certo, la solitudine fa paura. Ci sono stati momenti così difficili in cui avrei voluto avere la mamma vicino. Mi sarebbe bastata una carezza. Proprio oggi mi ha chiesto al telefono: quando ci rivedremo? Magari dopo Pasqua, le ho risposto, se non prorogano le misure, ma ci vedremo da lontano, tu sul balcone e io sotto».

Dover affrontare tutto questo con un medico che ti segue da lontano, con la paura dell’ospedale, non è insopportabile?

«Io sono grata al mio medico che mi ha chiamata ogni giorno, si è fatto in quattro per farmi fare il tampone, mi ha inserito nella cura sperimentale, mi ha portato il saturimetro per misurare l’ossigenazione del sangue. Il resto sì, è stato difficile. Un paio di volte sono scoppiata a piangere. Non per paura di morire, questo no, perché respiravo bene. Ma per il dolore. A un certo punto ho pensato che non finisse più. La notte è il momento peggiore. Ti addormenti perché sei sfinita e poi ti svegli alle 2, ti giri, ti rigiri, cambi la maglietta perché hai sudato, non senti odori eppure avverti la tua “puzza di malato”.  Di notte ti chiedi: se mi succede qualcosa ora cosa faccio? Sul cellulare avevo memorizzato tra i primi numeri quelli del 112, di Giorgia e di Rosa. “Se sto male basta che prema il tasto e qualcuno mi risponde” mi dicevo, una piccola strategia per tranquillizzarmi».

Hai avuto qualche momento critico?

«Controllavo tutti i giorni la saturazione. “Non deve scendere sotto i 90” mi aveva detto il medico. Un pomeriggio la provo: 88. Mi è preso un colpo. Poi ho deciso di reagire. Ho iniziato a fare gli esercizi di respirazione che mi avevano insegnato in palestra. Ho aperto la finestra, ho respirato profondamente, “brutto stronzo di un Covid non mi avrai” ho detto. Qualche ora dopo la saturazione era salita a 92».

Come passi la convalescenza?

«Riesco a fare poco. A forze mi sento un’ameba. Mi addormento alle 8 e mezzo di sera, ma già alle 6 del pomeriggio ho un down. Tutte le mattine scrivo su Facebook la mia esperienza e tante persone mi rispondono per raccontare le loro storie. È come se chi si ammala di Covid entrasse a far parte di una comunità dove ci si scambiano emozioni, pensieri, preoccupazioni anche molto intimi. Ogni giorno poi sento la mia famiglia, le mie amiche, prima tra tutte Daniela Cotto di Asti che oggi mi ha detto “Mi manchi moltissimo”. Chissà quando ci rivedremo. Ho ripreso a cucinare e a leggere, il pomeriggio lo dedico a tutte le trasmissioni che parlano del virus. Insomma, sto recuperando una certa normalità».

Cos’è stata questa esperienza?

«Una tromba d’aria. Un altro 11 settembre, ma molto più vicino a ciascuno di noi, perché coinvolge le famiglie, le amicizie, la vita quotidiana. Sono convinta che cambieremo molto. Nei consumi per esempio. Oggi ci sono le code al supermercato, le file per il pane, si compra quello che c’è e non quello che ci piace. Questa cosa ci resterà dentro. Cambierà il modo con cui esprimeremo la nostra affettività. Invece di abbracciarci daremo importanza agli sguardi che spunteranno dalle mascherine.

E cambierò anch’io. Quando uscirò dalla malattia farò una vita più concreta, meno legata al lavoro. Voglio aiutare chi è in difficoltà, chi non ha da mangiare. Dare una mano a chi ha bisogno. Come altri hanno fatto con me quando mi sono ammalata. Non dimenticherò mai lo sguardo di Giorgia, la mia vicina di casa e amica, nel mio giorno peggiore. Uno sguardo in cui c’era scritto tutto. Voglio che sguardi come quello diventino quotidianità. Nella gioia e nel dolore».

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