Eternit, a Casale piangiamo la giustizia negata

Quello che chiedo, a voi che oggi su tutti i giornali leggete della sentenza della Cassazione che

ha cancellato con un colpo di spugna la condanna al magnate svizzero Stephan Schmidheiny per le morti dell’Eternit,

le morti da amianto, quello che vi chiedo è di provare a immaginare cos’è questa sentenza per Casale Monferrato, la città dove sono nata, 36 mila abitanti e più di 2 mila morti finora per mesotelioma pleurico, il cancro provocato dalle fibre di amianto.

Il cancro di cui è colpevole l’Eternit che per decenni, prima di essere chiusa nel 1986,  ci ha riempito l’aria di quelle fibre sottilissime che abbiamo respirato, che ci sono entrate dentro, per esplodere, anche dopo 40 anni di incubazione, in una malattia che ti fa morire per soffocamento e che non ha mai visto una – e dico una sola – persona guarire.

Una tragedia che deve raggiungere ancora il suo picco, previsto per il 2020, in una tragica lotteria che ti vede ogni mattina aprire gli occhi e sperare di non essere tu, quel giorno, quello estratto a sorte.

Romana Blasotti Pavesi davanti alla Corte di Cassazione. Romana ha 85 anni.
Romana Blasotti Pavesi davanti alla Corte di Cassazione. Romana ha 85 anni. Il mesotelioma pleurico le ha portato via il marito Mario, la figlia Maria Rosa, la sorella Libera, il nipote Giorgio, la cugina Anna. Oggi Romana guida l’Associazione familiari e vittime dell’amianto di Casale Monferrato.

Stanotte, che ci ha visto tutti svegli a Casale e nelle città dove la vita ci ha sparpagliato, ho cercato di capire le ragioni di una sentenza che è un affronto alla giustizia.

Stephan Schmidheiny, il proprietario dell’Eternit, in appello si era preso 18 anni per disastro doloso ambientale perché – avevano stabilito i giudici di Torino – «aveva adottato misure minimali a costi ridotti» pur sapendo della pericolosità mortale dell’amianto, allo scopo di «conservare e rafforzare la sua posizione sul mercato». Producendo così «un’aggressione fisica e psichica, derivante tanto dalla sofferenza prodotta dalle malattie sia dalla consapevolezza di poter contrarre patologie mortali, specialmente il cancro maligno mesotelioma».

Che tradotto voleva dire che se ne era infischiato della pericolosità mortale dell’amianto,

che il suo interesse era quello di guadagnare, e che con il suo comportamento aveva condannato uomini e donne di un’intera città chi a morire, chi a soffrire per i lutti e la paura di ammalarsi.

Ieri a Roma in Cassazione si è detto che Stephan Schmidheiny era stato condannato per disastro ambientale doloso e non per omicidio, e che il disastro è prescritto per la chiusura degli stabilimenti nel 1986.

Si è detto che disastro è una casa che crolla e non una fabbrica che ha ucciso i nostri nonni e i nostri genitori, i miei compagni di scuola e i miei amici, noi e le generazioni future.

La Cassazione ha parlato apertamente di responsabilità di Schmidheiny, ma, ha precisato il procuratore generale Francesco Mauro Iacoviello, la prescrizione è un atto di diritto sebbene «non risponda a esigenze di giustizia».

Tra diritto e giustizia è stato scelto il diritto, negando consapevolmente giustizia.

Provate a immaginare cosa significa la sentenza per le famiglie di Casale Monferrato che piangono tutte dei morti per amianto. Uomini e donne che hanno stretto i denti, ingoiato dolore, lutti, paura.

Volevano farcela, dovevamo farcela: perché la nostra storia diventasse di esempio per tante altre, perché si evitasse che altre ne accadessero uguali e tragiche.

E anche per trovare un senso, se mai senso può esserci, alla condanna – questa sì definitiva – che è stata inflitta a ciascuno di noi. E che nessuna Corte mai potrà annullare, prescrivere. Com’è stato ieri, per la nostra storia.

 

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