Sheroes, la mostra di Amnesty sulle spose bambine

Stasera alla Triennale di Milano, all’inaugurazione della mostra fotografica “Sheroes” organizzata da Amnesty International sulle spose bambine in Burkina Faso, c’era anche la mamma di Leila Alaoui, la fotografa franco-marocchina rimasta uccisa negli attacchi del 15 gennaio 2016 a Ouagadougou.

Leila Alaoui
Leila Alaoui

Leila Alaoui è l’autrice di numerosi scatti tra quelli esposti. Era in Burkina Faso proprio per realizzare il reportage per Amnesty quando è rimasta coinvolta, con il suo autista Mahamadi Ouedraogo, nell’attacco da parte di un gruppo di jihadisti a un hotel e a un bar ristorante.

Leila aveva 33 anni ed era bravissima: aveva esposto le sue foto alla Maison européenne de la photographie di Parigi e i suoi scatti erano stati pubblicati su giornali di tutto il mondo, tra cui il New York Times e Vogue.

La sua mamma non ce l’ha fatta a dire una sola parola. E’ rimasta lì, seduta, nel Salone d’onore della Triennale, salutata da un applauso commosso.

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“Sheroes”, titolo della mostra, è una contrazione di “she“ e “heroes“. Le “sheroes” sono le ragazze che hanno subito e hanno superato la violenza, lo stupro, il matrimonio precoce e forzato, l’esilio, il disagio; ma anche le donne che stanno con loro per difenderle e proteggerle.

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Nel rapporto intitolato “Costrette e impedite: i matrimoni forzati e gli ostacoli alla contraccezione in Burkina Faso”, Amnesty International ha denunciato le violenze a cui sono costrette migliaia di bambine – anche di soli 13 anni – del Burkina Faso.
 Bimbe che, una volta sposate, devono diventare subito madri. Molte di loro muoiono per queste gravidanze precoci o subiscono danni fisici permanenti.

Nonostante la legge del Burkina Faso prevede che le ragazze debbano avere almeno 17 anni prima di sposarsi, nella regione settentrionale del Sahel più della metà (il 51,3 per cento) delle bambine tra i 15 e i 17 anni è già coniugata.

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«Le famiglie del Paese» denuncia Amnesty «fanno sposare le loro figlie per consolidare relazioni familiari, acquisire status sociale o ottenere beni, servizi o denaro. In alcuni parti del Paese è diffusa una pratica chiamata “pog-lenga” o “bonus donna”: una sposa può portare la nipotina con sé, presso la famiglia del marito, per combinare un matrimonio aggiuntivo».
Celine, una bambina di 15 anni fuggita il giorno del matrimonio, appena dopo la celebrazione, ha raccontato ad Amnesty International come sia stata obbligata a sposare un parente del marito di sua zia. «Non lo volevo. Ma mia zia mi ha minacciata: “Se te ne vai, ti distruggeremo”. Sono scappata da casa di mio marito ma quando sono tornata nel villaggio la mia famiglia mi ha detto che non potevo restare».

Le bambine che si oppongono al matrimonio forzato subiscono enormi pressioni dalla famiglia e dalla società, comprese minacce di violenza. Come nel caso di Maria, 13 anni: «Mio padre voleva darmi in moglie a un uomo di 70 anni che aveva già cinque mogli. Se mi fossi rifiutata, mi avrebbe uccisa». Dopo essere scappata di casa, Maria ha camminato per tre giorni e per 170 chilometri per trovare aiuto in un rifugio per bambine.

Le immagini di Leila Alaoui (insieme a quelle di Sophie Garcia e Nick Loomis ) raccontano le storie positive di ospiti e lavoratrici di case-rifugio, ginecologhe, responsabili di associazioni femminili, leader di comunità. Sono storie di coraggio, determinazione, impegno.

Storie di speranza e di luce. Come quelle di Leila Alaoui e di Mahamadi Ouedraogo che chiudono la mostra.

L’allestimento alla Triennale di Milano rimarrà aperto fino a domenica 8 maggio, nell’ambito della prima edizione del Festival dei Diritti Umani. E’ la prima tappa di un tour che toccherà diverse città italiane.

Amnesty International ha lanciato un appello per far vietare i matrimonio precoci. Si può firmare qui.

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