Le foto dei bambini siriani e l’indignazione a rate

L’ho guardata per due giorni e per due giorni ho rimuginato. L’ho guardata e ho pensato che sarebbe stato come sempre. Parole tantissime, e molto politicamente corrette. La solita ipocrita compassione. E poi il silenzio e l’indifferenza.

L’ho proprio pensato e un po’ mi sono sentita in colpa.

Ho guardato la foto della bambina siriana nella valigia. La piccola dorme, con la testa e le braccia  fuori dalla valigia di cuoio.

bambino siria ghouta siria

L’avevano presa per un maschio, ma ha un piccolo orecchino e vuol dire che è una femmina. Viene trasportata da un uomo, di cui si vede solo la mano. «Un’immagine che racconta più di mille parole» commenta l’Unicef con un tweet. «Padre e figlia sono fra le migliaia di civili che ieri hanno potuto abbandonare Hamouria, nella Ghouta orientale». Ghouta è un grande quartiere alla periferia di Damasco, da quattro anni sotto le bombe delle forze legate al regime di Bashar al-Assad. Solo nelle ultime tre settimane sono morte 1.500 persone. Le truppe di Bashar, che vogliono liquidare i gruppi della resistenza islamica, stanno permettendo la fuga dei civili tramite (pericolosi) corridoi umanitari.

La bambina siriana che il papà porta nella valigia è l’ennesimo simbolo della tragedia del popolo di quel Paese.

L’ennesimo.

Era un simbolo anche Hudea (la ricordate o l’avete dimenticata?).

hudea siria

Hudea che nel 2015 venne ritratta dal fotografo Osman Sagirli con le mani alzate. Aveva 4 anni e aveva scambiato la macchina fotografica per un fucile.

Era un simbolo Aylan Kurdi, nato a Kobane, nord della Siria, 3 anni nel 2015, annegato nel tentativo di raggiungere l’Europa.

aylan kurdi

L’immagine del suo corpo senza vita, la maglietta rossa, il viso riverso nella sabbia sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, raccontava tutti i bambini che muoiono in mare cercando una vita che non sia solo guerra.

Era un simbolo  Omran Daqnish, 4 anni ma nel 2016.

Omran Daqnish

Estratto dalle macerie coperto di polvere, un occhio incrostato dal sangue, dopo un bombardamento sulla zona orientale di Aleppo controllata dai ribelli al regime di Bashar al-Assad.

***

La foto della bambina in valigia l’ho guardata per due giorni e per due giorni ho rimuginato. Poi ho trovato in Rete, sul blog del Fatto Quotidiano, un articolo dello scrittore Shady Hamadi, mamma italiana e papà siriano. E ho capito cosa mi tormenta.

Hamadi la chiama “indignazione a rate”. E scrive: «E’ uno scatto destinato a finire nel dimenticatoio nel giro di 24 ore, facendo ripiombare il consueto silenzio sulla crisi siriana che è, probabilmente, la peggiore al livello umanitario dal secondo dopoguerra a oggi. Questa immagine, come molte altre che hanno fatto il giro del web, rappresenta la routine dell’indignazione a rate: viene pubblicata una foto, milioni di persone la condividono, si scrivono articoli in cui si ricorda la tragedia del Paese mediorientale, si dibatte un po’ e finisce tutto, ancora una volta, nello sgabuzzino dei ricordi».

Ammetterlo è amaro, ma è quello che accade davvero.

La guerra in Siria è entrata nell’ottavo anno: più di mezzo milione le vittime, milioni i rifugiati e gli sfollati. Una carneficina a cui il mondo continua ad assistere impotente, indignandosi a rate, a tempo. Indifferente.

 

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