Massimo Galeotti, 40 anni, in Guinea per Medici senza Frontiere

Dalla Guinea sotto assedio per l’ebola arriva una storia. Ed è una bella storia

«Non ho la presunzione di pensare di aver salvato la vita a quella ragazzina, ma sono certo che l’incoraggiamento, la vicinanza e la mia testardaggine le siano state da spinta».
Parla dalla Guinea Massimo Galeotti, quarantenne con il volto da ragazzo, origini fiorentine ma da 11 anni in giro per il mondo con Medici senza Frontiere. Parla dalla Guinea “sotto assedio” per l’ebola. Parla da Guéckédou, sud-ovest del Paese, dove l’epidemia è iniziata, per poi diffondersi in Liberia,  Sierra Leone e Nigeria.

L’epidemia di Ebola che sta colpendo da marzo alcuni Paesi dell’Africa occidentale è stata definita dall’Organizzazione mondiale della sanità un’emergenza internazionale. A oggi sono circa 1.000 le vittime. Ma 1.000 è solo il numero ufficiale, perché ci sono villaggi pieni di morti che nessuno ha contato.

Ebola è un virus aggressivo che causa una febbre emorragica, un’infezione animale che si trasmette agli uomini e riesce a resistere a gran parte delle difese immunitarie del nostro organismo. La situazione è complicatissima. Ma la storia che Massimo racconta è incredibilmente una bella storia.

«Il giorno del mio arrivo ricoverano una famiglia: padre, madre e tre figlie di 7, 10 e 13 anni. Il padre muore qualche ora dopo, come la moglie Geneva. Le bambine restano sole. Subito mi colpisce l’aria da dura con cui Mary, la più grande, mi guarda. Sola ad accudire le due sorelline, passa ore a cercare di dar loro da bere e da mangiare. Ma la più piccola, dopo una notte di calvario, se ne va. E Jetta, l’altra sorella, si addormenta di un sonno profondo, dal quale non si sveglia più.

Mary è lì, apparentemente indifferente alla morte, non piange. Non si muove per ore, e così la ritrovo quando alle sette di sera rientro per portarle la cena. Le metto il piatto davanti e le chiedo di fare uno sforzo, spiegandole che mangiare e bere aiuta l’organismo a combattere l’ebola. Non muove la testa di un millimetro.

Il giorno dopo la trovo sdraiata per terra, che dorme. La chiamo, la prendo per mano, le dico che non mi sarei arreso, e che sarei rimasto lì accanto a lei fino a che non avesse assaggiato il cibo che le avevo portato. Niente. Allora decido di parlarle in italiano, la nostra bella lingua così musicale da incantare anche chi non la conosce. Rimango al suo fianco raccontandole un po’ di cose: da dove vengo e cosa faccio nel suo Paese. Mary mi guarda, come rapita da un testo stupendo di una canzone ascoltata per la prima volta. Mi faccio coraggio e le avvicino il piatto: subito si gira dall’altra parte. Mentre mi allontano sento la sua mano afferrare il mio braccio. Le avvicino il piatto e rimango altri minuti ad aspettare che lei apra la bocca: finalmente mangia qualche boccone di riso.

Non so descrivere il senso di vittoria che provo in quel momento. Certo non è il segno della guarigione, ma comunque un grandissimo passo in avanti. All’uscita dall’unità di isolamento urlo a tutta l’équipe la grande novità. Non ci credono, allora li faccio avvicinare alla tenda da dove si intravede Mary masticare piccolissimi bocconi di riso.

Il giorno dopo parto per la Liberia, dove l’ebola continua la sua avanzata. Ma prima vado a salutarla. Mi guarda, prende il piatto e inizia a mangiare. Le faccio ciao con la mano dicendole che ogni giorno avrei chiesto sue notizie.

Oggi mi è arrivata la grande notizia: “Mary ce l’ha fatta”. Non ho parole per esprimere la gioia che provo e così mi copro il volto con le mani e come un bambino piango. Non ho la presunzione di pensare di aver salvato la vita a quella ragazzina che non rivedrò mai più, ma sono certo che l’incoraggiamento, la vicinanza e la mia testardaggine le siano state da spinta. Mary ha fatto il resto e forse il fato, finalmente, ha dato il suo contributo».

Le équipe di emergenza di Medici senza Frontiere continuano  i loro sforzi per combattere l’epidemia di ebola in Africa occidentale: in 676 lavorano in Guinea, Sierra Leone e Liberia. Medici senza Frontiere ha raggiunto il suo limite in termini di personale, e chiede all’Organizzazione mondiale della sanità, alle autorità sanitarie e alle altre organizzazioni di incrementare rapidamente e massicciamente la loro risposta all’emergenza.

 

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