come si racconta una guerra

Come si racconta una guerra?

Come si racconta una guerra?

Da che è iniziata l’offensiva di terra di Israele nella Striscia di Gaza, non faccio che leggere cronache, analisi e reportage. Vedere telegiornali. Guardare gallery fotografiche, crudeli più di tante parole, che mostrano corpi di bambini uccisi dalle bombe e case distrutte e gente disperata.

Quel che mi ha davvero colpito è però un racconto interrotto a metà.

Il collegamento da Gaza di Wael Al Dahdouh, un giornalista della tv Al Jazeera, sulla strage di Sajaya, quartiere periferico di Gaza da dove secondo Israele sarebbero partiti i razzi palestinesi contro Tel Aviv e altre città. Mentre parlava dei morti in un bombardamento lungo 14 ore, e dei sopravvissuti che fuggivano a migliaia nelle strade con le mani alzate sventolando bandiere bianche, Wael si è messo a piangere.

Ecco cos’è la guerra, ho pensato.

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C’è un ospedale a Gaza city che si chiama Al Shifa dove lavorano gli operatori di Medici senza Frontiere, unica organizzazione umanitaria presente a Gaza con personale straniero.

Due giorni fa, al pronto soccorso, sono arrivate decine di persone, soprattutto donne e bambini, tra le centinaia di feriti nell’attacco israeliano nel quartiere Ash Shuja’iyeh. «In sala di rianimazione metà dei casi gravi sono morti entro dieci minuti e metà sono stati operati d’urgenza» mi dice Audrey Landmann, che a Gaza è il coordinatore medico di Msf. Mentre i chirurghi operavano, un colpo di artiglieria israeliana ha centrato un altro ospedale della città, un anestesista è rimasto ferito e ai morti se ne sono aggiunti quattro, tra cui due paramedici.

Come si può bombardare un ospedale?

Me lo domando mentre leggo l’appello con cui Medici senza Frontiere chiede a Israele di fermare i bombardamenti contro i civili nella Striscia di Gaza. E di rispettare anche la sicurezza degli operatori e delle strutture mediche. Perché in tutta l’area, compreso l’ospedale Al Shifa dove l’équipe di Msf lavora giorno e notte (il capomissione Tommaso Fabbri e il chirurgo Cosimo Lequaglie sono italiani), il pericolo continua a rimanere altissimo. «Le autorità israeliane ci avevano garantito spostamenti sicuri dal passaggio di frontiera di Erez a Gaza City per poter accompagnare in città uno staff chirurgico appena arrivato» mi dice Nicolas Palarus, coordinatore del progetto Msf a Gaza.  «Ma la nostra auto chiaramente identificabile ha rischiato di finire sotto un attacco aereo ad appena 300 metri di distanza».
Medici senza Frontiere è un’organizzazione indipendente, neutrale e imparziale. Non dà giudizio alcuno su questa guerra. Ma Nicolas aggiunge parole pesanti come pietre: «Secondo le dichiarazioni ufficiali, l’offensiva di terra punta a distruggere i tunnel che da Gaza portano in Israele. Quello che vediamo noi sul campo sono però bombardamenti indiscriminati che uccidono uomini, donne e bambini».

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Capire quello che sta succedendo a Gaza è difficilissimo. Io tento di farlo e non sono certa di riuscirci. Cerco disperatamente di non dare giudizi, di guardare insieme l’offensiva di terra israeliana e la pioggia di razzi sparati dai palestinesi. Ma è difficile, ancora più difficile se si contano le vittime: l’invasione di Gaza ha fatto 583 morti e 3.640 feriti tra i palestinesi, mentre sul fronte israeliano sono 27 i soldati uccisi in combattimento. Numeri che valgono oggi. Domani saranno più grandi. In questo conflitto eterno per il quale da anni si invoca una pace che forse non ci sarà mai.

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La situazione umanitaria a Gaza è al collasso: gli sfollati sono 135 mila, 90 mila dei quali ospiti dell’Unrwa, l’ente dell’Onu per i profughi. Nell’ospedale Al Shifa manca tutto: medicine e poi garze e ciò che serve in sale operatorie di emergenza. Ma in qualche modo si fa. E si aiuta anche il personale del posto. «Noi abbiamo dato rifugio nella clinica post-operatoria a tre famiglie di operatori locali di Msf» dice Palarus. «Non hanno un altro luogo dove andare. I rifugi delle Nazioni Unite sono pienissimi e le condizioni di igiene estremamente preoccupanti».

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Poi ci sono gli appelli caduti nel vuoto. Quelli dei presidenti degli Stati Uniti Obama e della Russia Putin, e quello delle Nazioni Unite per una tregua. Papa Francesco, che poco più di un mese fa aveva incontrato in Vaticano i leader palestinese Abu Mazen e israeliano Shimon Peres, ora chiede una preghiera. «La violenza non si vince con la violenza. La violenza si vince con la pace».

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Per me, che guardo, è una guerra che colpisce soprattutto le persone. Ho chiesto a Audrey Landmann, il coordinatore medico di Msf, di raccontarmi una storia che valesse per tutte le storie. Mi ha risposto con quella di due fratellini di 8 e 4 anni, arrivati in ospedale senza genitori, il corpo ustionato dall’incendio provocato da un missile che aveva colpito la loro casa. Li hanno ricoverati fianco a fianco nell’unità di terapia intensiva. Perché si sentissero meno soli.

 

 

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