claudio baglioni

Baglioni, i migranti, Sanremo (e la libertà di dire ciò che si pensa)

Avevo 15 anni e più che per la maglietta fina di Questo piccolo grande amore, trattenevo il respiro, come faccio ancora oggi quando sono emozionata, ascoltando Poster, canzone nella quale un Claudio Baglioni parecchio giovane, occhioni tristi, riccioloni sulle spalle, un po’ bietolone nel complesso, gridava (letteralmente): «Tu che intanto sogni ancora /sogni sempre/sogni di fuggire via/E andare lontano lontano/Andare lontano lontano». Che poi era quello che desideravo fare io davvero. E mi stupivo che un tipo così sapesse interpretare tanto bene quello che non riuscivo a spiegare neppure a me stessa.

Erano tempi speciali, o forse lo erano perché avevo 15 anni chissà, e proprio perché erano speciali io sono cresciuta cantando L’avvelenata di Guccini e andando ai concerti degli Inti Illimani, dove alzavo il pugno chiuso sulle note di Y el pueblo unido Jamás será vencido.

Però i vinili (33 giri li chiamavano) di “quel Baglioni” li avevo tutti e li ascoltavo sempre, anche se si diceva che fosse un borghese di destra, parole pesantissime allora. Erano canzoni che interpretavano la leggerezza degli anni dell’adolescenza, quando credo sia inevitabile sognare magliette fine e dichiarazioni d’amore grondanti miele.

Ma Claudio Baglioni per me non è stato solo musica leggera. Molti anni dopo, era il 2011, ho passato un po’ di tempo a Lampedusa, nel pieno dell’emergenza migranti, quando il numero di chi sbarcava era più alto di quello degli abitanti stanziali.

Baglioni, che sull’isola ha un villone bellissimo, a Lampedusa organizzava dal 2003 O’Scià, festival che aveva l’obiettivo di raccontare in musica il tema delle migrazioni e quello che stava vivendo una comunità coraggiosa e sofferente. Ricordo che una sera un gruppo di migranti entrò nella sua villa. Non rubarono niente ma vuotarono il frigorifero. «Pazienza, evidentemente avevano fame» fu il commento di Baglioni che neppure fece denuncia.

Oggi, in questo mondo che sta andando al contrario, Baglioni è sotto tiro per avere detto, durante la conferenza stampa sul Festival di Sanremo di cui è direttore artistico per il secondo anno, cose neanche tanto originali, ma di assoluto buon senso.

«Se non fosse drammatica la situazione di oggi ci sarebbe da ridere. Ci sono milioni di persone in movimento, non si può pensare di risolvere il problema evitando lo sbarco di 40-50 persone, siamo un po’ alla farsa. Credo che le misure prese dall’attuale governo, come da quelli precedenti, non siano assolutamente all’altezza della situazione. Ormai è una grana grossa: se la questione fosse stata presa in considerazione anni fa, non si sarebbe arrivati a questo punto. Il Paese è terribilmente disarmonico, confuso, cieco quasi nella direzione da prendere. E’ incattivito, rancoroso, nei confronti di qualsiasi “altro”, visto come un essere pericoloso. Ormai guardiamo con sospetto anche la nostra ombra».

Che non è una genialata. Ma solo quello che sta accadendo.

Il neo direttore di RaiUno, tale Teresa De Santis, ha reagito come se fosse stata punta da una Tarantula hawk, che è uno degli insetti che se ti mordono ti fanno provare un dolore tremendo, tra i peggiori. Da qui l’urlo: «Baglioni mai più all’Ariston se ci sono io!», per poi spiegare la sua posizione contraria alle opinioni del cantante in una lettera inviata al sito Dagospia.com (mah!).

Ora, di Teresa De Santis ha detto bene Pier Luigi Celli, già direttore della Rai, a Lilli Gruber a Otto e mezzo: «Quando si affida un incarico a chi non ha esperienza e competenza e si crede chissà chi, succedono cose come queste».

“Sputazzato” da Salvini (ma è ovvio tenuto conto che il nostro ministro dell’Interno i migranti li vuole abbandonati per sempre in mezzo al mare) e minacciato di non fare la terza edizione di Sanremo per le sue parole sulle migrazioni (ed è questo ciò che è più grave, che non si possa più esprimere liberamente il proprio pensiero), spero che Baglioni abbia preso la situazione con allegria. Come un segno distintivo e positivo per uno che è sempre stato coerente con le sue idee, e non è poco.

Lo scorso anno portò sul palco dell’Ariston Pier Francesco Favino e il bellissimo monologo tratto da “La notte poco prima della foresta” di Bernard-Marie Koltés, facendo seguire il brano Mio fratello che guardi il mondo di Ivano Fossati che interpretò insieme a Fiorella Mannoia.

Un colpo al cuore magari per appena lo 0,01 per cento dei milioni di spettatori davanti alla tv in quel momento.

Ma è anche convincendone uno solo per volta che si inizia a cambiare le cose.

 

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