Il rosticcere sotto casa, quello che mi salva quando il frigo è vuoto e mi guarda con tenerezza quando addito le carote e gli chiedo cosa sono, inforca le coste bollite e mi dice nel suo milanese madrelingua: «A mi el me pias no, mi a soo minga Prandelli, che po’ anche lu…, ma Balotelli no! No no no!». Io lo guardo con un filo d’ansia impugnare il forchettone come fosse un macete. Lui scuote la testa. E dice, e sembra un singhiozzo: «Questo no».
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La prima volta del mio Brasile risale a tanti anni fa.
Ero appena arrivata in Mondadori e in uno di quei momenti in cui non riesci ancora a capire bene dove sei, avevo sentito il direttore chiedere al caporedattore: «E se a raccontare le favelas mandassimo questa Triglia?».
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L’ho visto la prima volta qualche mese fa. Credo fosse gennaio, perché era freddo anche nel corridoio della stazione della metropolitana.
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Ho cominciato a lavorare 35 anni fa, quando ne ho compiuti 19.
Testa dura già allora (molto più di adesso, se devo fare un bilancio), avevo un’idea romantica del giornalismo. E dei giornalisti soprattutto.
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il blog di Monica Triglia